La lingua del mare

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Quando nonostante la distanza si trova un modo per rimanere uniti – Parte Seconda

Max passó la giornata lavorativa nervosamente, controllando ripetutamente il cellulare: nessun segno di Margaret. Eppure era convinto che l’avrebbe richiamato. Il pensiero lo tormentava e anche quel “ma…” lasciato in sospeso. Così, decise di ripassare da Margaret, inventando una scusa sul digitale.
Quella sera tornò da Margaret. Lei sembrava felice di rivederlo, quasi soddisfatta.
«Allora, era arrivata a quando aveva salutato quel marinaio…»
«Oh, lei è un giovane curioso!», esclamò Margaret, mentre Max trafficava con i suoi strumenti.
«Ero rientrata in fabbrica per finire il mio lavoro, quando, una volta uscita, lo vidi seduto lì dove ci eravamo salutati. Ero davvero sconvolta, mi deve aver aspettato per ore e non ci conoscevamo nemmeno. Non sapevo che fare, sarei dovuta rientrare a casa e non potevo presentarmi con uno sconosciuto da mio padre. Non sapevo come dirglielo, ma fu lui a parlare per me. “Immagino che tu debba rincasare, ma volevo rivederti. Anche solo per salutarti. Io sta sera riparto. Sono solo un giovane pescatore, ma in nessuno dei mille posti che ho visitato penso di aver visto qualcosa di più bello e interessante di te. Perciò tornerò, ma mi dovrai aspettare. Dovrai venire ogni sera al tramonto al molo del porto e quando tornerò mi troverai lì. Io ti scriverò finché sarò via. Tutto questo ovviamente solo se lo vorrai… Non dirmi nulla, non dirmi di sì, se sarà un sì lo vedrò con i miei occhi. Arrivederci, Margaret”. E se ne andò, fischiettando. Ero sconvolta. Non sapevo nemmeno che rispondere, era un ragazzo interessante, sorprendente ma nulla più. Eppure il giorno dopo, al tramonto, mi sentivo combattuta, mi sentivo strana. Così, decisi di andare al molo. Mi sedetti su un grosso cubo di marmo e aspettai. Ricordo che aspettai così tanto che il sedere mi si intorpidí per il freddo, mi sentivo in agitazione al pensiero che lui potesse tornare. Iniziai ad andare ogni giorno al molo, al tramonto, ad aspettare su quel gelido ma speciale cubo di marmo. Dopo qualche settimana lo rividi: era lì ad aspettarmi. Parlammo fino a sera dei suoi viaggi, del lavoro, della politica. Sentivo il peso di quel tempo, di quelle poche ore. Non si poteva perdere un secondo tra una parola e l’altra, ma si fece tardi. Nell’aria si percepiva una certa attrazione mista a imbarazzo. Ci piacevamo e avevamo fatto entrambi una cosa assurda per l’altro, pur conoscendoci poco. Fu lui a baciarmi all’improvviso. Un secondo dopo ridevamo imbarazzati, con il desiderio di baciarci ancora con tenerezza, consapevoli della preziosità di quell’istante. Gli lasciai il mio indirizzo di casa, per scrivermi, e ci salutammo. Fu doloroso… Ma, mi dica, quell’aggeggio non ha nulla che non vada, vero?»
Max guardò Margaret stranito, poi si rese conto che era da un po’ che la stava semplicemente ascoltando incantato, senza muovere alcun arnese.
«Oh sì, beh, sembra essere tutto a posto», balbettò il tecnico. Non sapeva che dire, era venuto lì per controllare che tutto fosse ok, ma in cuor suo capì che in realtà era lì per Margaret, per quella storia.
Così, glielo confessò.
«Oh, lo avevo intuito, sa? Mi fa piacere, non si deve preoccupare, ma si è fatto tardi per cui… torni domani o quando ne avrà il tempo, le prometto che continuerò la mia storia».
Max guardò Margaret con affetto, le diede un abbraccio e le promise di tornare.
La sera dopo era di nuovo lì da lei. E lei lo aspettava con il suo caffè.
«Mi scrisse molte lettere in cui mi raccontava dei posti in cui era sbarcato, della gente che conosceva, mi dedicava poesie, mi diceva quanto gli mancavo. Tornava e ci trovavamo sempre al porto, vicino a quel cubo di marmo. Conoscevo ormai ogni increspature del mare, ogni colore di quel pezzo di cielo, e il rumore, il rumore della sua nave. Il molo era il nostro rifugio d’amore, dove c’eravamo solo noi, e null’altro più nel mondo aveva importanza. Ma col tempo iniziai a conoscere bene non solo il molo, ma anche lui… Johon».
Max si rese conto che era la prima volta che Margaret nominava il suo nome. E in quel nome c’era così tanto amore e dolore insieme, che sembrava improvvisamente che tutta la storia fosse accumulata lì dentro.
«Il nostro amore cresceva a ogni attesa, a ogni ritrovo, e insieme crescevamo anche noi».
Margaret si interruppe nuovamente.
«Caro Max, il fatto che tu sia tornato nuovamente mi riempie il cuore di gioia. È da molti anni che non godo della compagnia di qualcuno. Inoltre mi ricordi me, quando ogni giorno tornavo in quel molo ad aspettare Johon. Non voglio raccontarti la fine di questa storia, ma ti chiederei di tornare, quando puoi, se ti fa piacere».
Max capì. Era onorato di dar seguito a quel rito, onorato di poter essere il testimone di quella storia. Capiva l’importanza di quel raccontare, ne sentiva il peso parola dopo parola. Era qualcosa di estremamente fragile, perché fatto di sole parole perse in un istante, ma prezioso e unico perché irripetibile e sacro. Per cui accettò senza alcun dubbio. E tornó per lungo tempo a sentire quella storia.
Con il passare del tempo, la mancanza tra i due si era intensificata, così Johon, da inguaribile romantico, aveva regalato a Margaret ciò che di più unico gli offriva il mare: la metà di una conchiglia di ostrica. Le aveva detto che quelle due metà erano come loro, lontane l’una dall’altra ma le uniche a poter combaciare, e una volta insieme creavano una delle cose più preziose al mondo. Per questo non potevano stare per troppo tempo lontane, e avevano deciso di parlare la lingua del mare. Una lingua che solo loro potevano capire. Se si posa l’orecchio su uno dei gusci si sente quello che fa l’altro, così le due metà se pur lontane sono sempre in contatto. Lo erano, così, anche Margaret e Johon.
Un giorno Johon era tornato tutto agitato da un viaggio, Margaret faceva fatica a riconoscerlo, era preoccupata. Dopo una passeggiata erano tornati al loro molo. Margaret si era seduta sul solito cubo di marmo. La luna nel cielo era piena e si rifletteva scomposta sul mare, tirava una leggera brezza che portava con sé il perenne odore della salsedine. Johon si era inginocchiato, aveva estratto dal taschino un’ostrica, l’aveva aperta. Dentro, un anello con una perla. Aveva chiesto a Margaret di sposarlo. Lei aveva pianto, lui aveva riso, abbracciandola e baciandola, e al ritorno dal viaggio successivo erano convolati a nozze nella più vicina chiesa. Avrebbero voluto un matrimonio intimo, ma alla cerimonia aveva partecipato mezzo paese, perché tutti ormai sapevano di quella storia e tutti ne erano rimasti affascinati, non potevano perdersi il grande evento.
Margaret e Johon rimasero ancora molto tempo insieme, e lei lo attendeva sempre allo stesso modo. Aveva partecipato ad alcuni dei suoi viaggi, ma non poteva seguirlo sempre.
Un giorno, al telegiornale, annunciarono che una nave era affondata a causa di un incendio nella sala macchine. Era la nave di Johon. Margaret, disperata, seguì ogni secondo del salvataggio alla tv, tenendo stretta al seno la sua metà dell’ostrica e pregando per Johon. Lui però giaceva già sul fondo del mare con gli occhi chiusi e i pugni serrati intorno a quell’ostrica portata alla bocca, forse per dire un’ultima volta ti amo.
Un giorno anche Max trovò così Margaret, con la sua ostrica e l’anello di perla strette al petto. Sapeva però che quell’amore non era mai finito, e non lo poteva essere nemmeno quella storia. Decise di renderla immortale, di scriverla, di raccontarla ai suoi figli e di conservare e tramandare in eterno quella conchiglia che Margaret aveva ormai destinato a lui, perché seppur lontani potessero rimanere sempre in contatto.

Giada Penello

Prendere la penna in mano mi rende terribilmente felice. Fin da piccola mi sono innamorata del mestiere di scrivere, poteva essere il classico romanzo rosa, invece porto le cicatrici sul corpo di questo amore. Combatto ogni giorno per conquistare un pezzo del mio sogno, vivere di parole, perché anche se mi fa soffrire ne sono terribilmente innamorata.