Il linguaggio dei social e delle chat

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Dove si colloca il linguaggio dei nostri tempi: scriviamo o parliamo?

Il linguaggio parlato è per sua natura sciatto e impreciso. Non dà tempo di riflettere, di usar le parole con eleganza e raziocinio, induce a giudizi avventati e non fa compagnia perché richiede la presenza degli altri. Il linguaggio scritto, al contrario, dà tempo di riflettere e di scegliere le parole. Facilita l’esercizio della logica, costringe a giudizi ponderati, e fa compagnia perché lo si esercita in solitudine. Specialmente quando si scrive, la solitudine è una gran compagnia. (Insciallah, 1990)

Così la pensava Oriana Fallaci, che sul linguaggio scritto ha basato una carriera e una vita. Ma se il linguaggio scritto e quello parlato sono due territori nettamente separati, dove si colloca il linguaggio dei nostri tempi, quello dei social e della messaggistica istantanea?

A prima vista la domanda sembra scontata, poiché le comunicazioni digitali implicano l’atto dello scrivere su una tastiera e imprimono dei segni decodificabili su un supporto, ma la risposta merita una riflessione in più. Il linguaggio dei social e delle chat non può essere considerato propriamente una forma di linguaggio scritto, anche se è fatto di parole scritte.

Il linguaggio scritto a cui si riferisce la Fallaci, è quello della narrativa, della saggistica, della scrittura giornalistica, della poesia, ma anche quello degli atti notarili, dei testi di legge, dei verbali della polizia, dei foglietti illustrativi dei medicinali. La questione, quindi, non riguarda il valore artistico o concettuale della scrittura, ma proprio il procedimento che vi è a priori: scegliere le parole, formulare con criterio, esercitare la logica, la ricerca e la riflessione. Cosa che avviene in tutte le forme di linguaggio scritto citate, seppur con modi e scopi diversissimi.

Sui social e nelle chat non è esattamente così. Essendo mezzi in cui prevale l’immediatezza, il loro linguaggio è molto più vicino alla parola orale che a quella scritta. Lo si potrebbe definire un linguaggio parlato scritto, cioè una “rappresentazione grafica della lingua parlata”. Tant’è vero che, aprendo le nostre chat di Whatsapp o scrollando la home page dei nostri social, nella maggioranza dei casi ci troviamo di fronte a sciatterie linguistiche, imprecisioni grammaticali, ortografiche e sintattiche e – ancora peggio – giudizi avventati, affermazioni non ponderate, frasi dettate dall’impulso, mancanza di gentilezza; tutti aspetti tipici del linguaggio parlato.

C’è un problema in tutto ciò? Da una parte sì. Questo linguaggio ibrido ha una e fondamentale caratteristica che lo assimila al mondo della scrittura: il fatto che una parola o una frase, una volta fissata su un supporto (fisico o digitale che sia), lì rimane, sebbene esista il tasto ‘elimina’. E dunque, la permanenza implica la reiterazione della sciatteria, dell’imprecisione, del giudizio avventato, dell’affermazione non ponderata, della frase dettata dall’impulso, della mancanza di gentilezza, della violenza in alcuni casi.

L’epoca digitale ha invalidato l’antico detto latino “Scripta manent, verba volant”. Le parole non volano più, rimangono. E rimangono tutte le più o meno serie conseguenze che la permanenza, la reiterazione e la diffusione di queste possono generare.

Per concludere, questo pensiero non è volto in alcun modo alla condanna del mondo dei social o del web in generale, che è innegabilmente una forma di avanzamento della società, ma vuole essere una riflessione e un invito ad avere più cura di quello che scriviamo e delle tracce che disseminiamo nell’etere infinito della rete. Ne gioveremmo tutti.

Articolo di Federica Lauda

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