Parasite (기생충)

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L’ultimo film di Bong Joon-ho è destinato a fare la storia del cinema

Il 2019 dal punto di vista cinematografico è stato una bomba: Il primo Re di Matteo Rovere ha aperto la stagione con grande impatto, poi c’è stato Joker, la cui influenza ancora satura i social e le discussioni dei cinefili; abbiamo assistito al ritorno di Tarantino con Once upon a time…in Hollywood!, tra plauso e dissenso. Da un paio di giorni è su Netflix The Irishman, applaudito come il miglior gangster movie di sempre, per la mano impeccabile di Martin Scorsese. Altri ancora stanno per arrivare: A Marriage Story di Noah Baumbach è una delle pellicole più attese dell’anno, ad esempio.

È in questo clima effervescente che fa la sua entrata trionfale Parasite, l’ultimo film di Bong Joon-ho (regista di Snowpiercer e Okja, rispettivamente usciti nel 2013 e nel 2017), che si è aggiudicato la Palma d’oro allo scorso Festival di Cannes, diventando il primo film coreano ad ottenere un tale riconoscimento e aggiudicandosi un posto d’onore tra i grandi della storia del cinema. Un pezzo di arte cinematografica di cui sentiremo a lungo parlare, almeno, si spera, fino alla stagione degli Academy. Il film è stato distribuito in Italia da Academy Two a partire dal 7 novembre.

Parasite mette in scena la drammaticità e l’assurdità delle dinamiche di ascensione sociale. La storia vede protagoniste due famiglie, i Kim e i Park, alle estremità opposte delle classi sociali. I Kim sono una famiglia terribilmente povera, che vive di sussidi di disoccupazioni in un seminterrato infestato dalle piattole, scroccando il wi-fi ai vicini di casa. I Park sono una famiglia molto molto ricca, che abita nella casa di un celebre architetto, con una governate e un autista; una famiglia che vive grazie alla circolazione del denaro che la attraversa.

Le cose cambiano quando il figlio minore dei Kim, Ki-woo (Choi Woo-shik), grazie alle raccomandazioni di un amico, riesce ad entrare nella vita dei Park come insegnante privato di inglese della figlia maggiore dei Kim, Da-hye (Jung Ziso). Ki-woo, dopo aver visto la paga, decide allora di architettare piani e stratagemmi per far entrare tutta la famiglia al servizio dei Park, senza porsi nessuna domanda morale ma cercando solamente di provvedere al sostentamento della famiglia. È così che le due famiglie si ritrovano a vivere sotto lo stesso tetto. Una casa che nasconde un grande segreto che sconvolgerà per sempre le storie dei Kim e dei Park.

Parasite può sembrare una normale e tranquilla commedia degli equivoci: le caratteristiche dei personaggi sono grottescamente enfatizzate (ad esempio, la frivolezza della signora Park) e proprio per questo risultano estremamente comiche; gli avvenimenti che portano all’insediarsi della famiglia dei Kim nella grande villa dei ricchi si susseguono con ritmo incalzante, gli escamotage usati per ottenere successo sono tanto assurdi quanto brillanti. Lo spettatore è incatenato in un climax ascendente destinato a culminare nel cuore del film con un colpo di scena che stravolge completamente il corso degli eventi. Poi, come se nulla fosse, tutto riprende nella perfetta perfezione della vita di chi non deve preoccuparsi di nulla, perché ci sono altri a badare a te.

I personaggi di Parasite ricordano quelli della commedia di Joseph Kesserling, Arsenico e vecchi merletti (1941), celebre per l’adattamento cinematografico di Frank Capra del 1944: sono persone perfette, o almeno che si mostrano tali o cercano di esserlo, ma i loro segreti, oscuri e terrificanti, sono destinati a corroderli dall’interno. E la ricerca di perfezione, che nel caso di Parasite si determina solamente come ascensione sociale e non come etica, è ciò che guida i percorsi contorti delle due famiglie. I poveri si lanciano a capofitto in un malato darwinismo sociale teleologicamente votato alla ricchezza, mentre i ricchi fanno a gara tra di loro a chi ha la casa più grande.

Bong Joon-ho però non lascia scampo a nessuno: la possibilità di emanciparsi, di arricchirsi, di raggiungere uno scopo agognato, è solo un’illusione, la lotta per la sopravvivenza è vana. La ricchezza, e quindi la felicità, la realizzazione, la perfezione di una persona, è deterministicamente legata alla famiglia in cui sei nato. Un modo, questo, per il regista sudcoreano di denunciare anche le inadeguatezze e le disuguaglianze che tutt’ora dividono e lacerano la Corea, dove i ricchi sono sempre più ricchi e sempre più pochi, mentre i poveri sono relegati, come nel film, nel seminterrato della società.

Parasite è molto di più di una storia intrigante e tragicomica. Parasite è una vera e propria opera d’arte. Lee Ha-jun sceglie come ambientazione una casa straordinariamente bella: un’ampia vetrata percorre il soggiorno, dando risalto ad un curato prato verde, e attraverso cui la luce investe gli interni eleganti e minimali. Una gigantesca mensola di cristallo retroilluminata conduce nel buio impenetrabile del seminterrato. La villa nella sua magnificenza è tanto protagonista quanto le persone che la abitano. A cui si oppone lo squallore del seminterrato dei Park, sporco, infestato dagli insetti, senza partizione di stanze.

Il tutto è valorizzato dalla fotografia impeccabile di Hong Kyung-pyo che, scegliendo un tono freddo e distaccato, vagamente opaco, fa capire allo spettatore che non deve rilassarsi troppo, che qualcosa molto presto succederà. La mano di Bong Joon-ho è ferma, le riprese sono decise, regolari, statiche e permettono allo sguardo di analizzare ogni minimo dettaglio dell’ambientazione e del movimento. Il tappeto sonoro la musica di Jung Jae-il scandisce perfettamente lo scorrere dell’opera e come un perfetto cardiogramma, ha dei picchi di altissima intensità e altri in cui si adagia e riposa per lasciar spazio ai dialoghi serrati e brillanti dei personaggi. Un’opera quindi visivamente incredibile, meravigliosa, estatica.

La cosa assolutamente incredibile di Parasite è il suo essere un film olfattivo. Nelle primissime scene, la città in cui vivono i Kim viene sottoposta ad un trattamento di disinfestazione e la loro casa viene pervasa dai fumi chimici dei pesticidi. Da lì non si riesce più a togliersi dal naso l’odore del veleno. Nemmeno i Kim ci riescono: la loro puzza sarà una costante determinante per tutto il film. Il loro odore, il fetore della povertà, non li abbandona mai. L’odore del seminterrato, del veleno, del sudicio, dello stantio e dell’umidità sono ciò che conferma il loro essere ultimi, il loro essere feccia. I Kim sono a tutti gli effetti, dei parassiti. E lo spettatore si scinde in due tra lo sconforto e il disgusto verso i Kim e la purezza, la impeccabilità e la magnificenza dei Park.

Parasite è in sintesi un film grandioso. Non solo uno dei migliori film dell’anno ma un unicum nel suo genere, un film che è destinato a fare la storia del cinema. Un film che colpisce da ogni punto di vista e che coinvolge in sè tutti i sensi umani, creando un’esperienza percettiva poliprospettica. Un film che anche nei momenti più splatter rimane di una sensibilità e di una bellezza disarmante. E come un tarlo le vicende delle due famiglie si insinuano nelle menti degli spettatori, che alla fine del film possono solo rimanere esanimi sulle poltroncine implorando di poterlo vedere, di poterlo rivivere, ancora una volta.

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Sono nata a Chioggia, negli anfratti della Laguna Veneta. Studio Filosofia all'Università di Padova. Attualmente vivo in Germania per il mio anno in Erasmus all'Università di Tubinga. Amo viaggiare, amo l'arte e la letteratura, il buon cibo, i cani e soprattutto amo il cinema e il teatro. Qui su Cogito cerco di raccontarvi il meglio di queste due arti meravigliose.